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Visualizzazione dei post da febbraio, 2011

Sarah Vaughan – Songs Of The Beatles (1981, Atlantic)

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Tredici titoli dalla saccheggiata produzione dei Fab Four interpretate da Sarah Vaughan. Registrato originariamente nel 1977 ad Hollywood e prodotto da Marty Paich e il figlio David che curano anche gli arrangiamenti, l’album fu pubblicato ufficialmente solo nel 1981. Con le sue indiscusse qualità vocali e coadiuvata dai più duttili senssionmen di L.A., tra cui il primo nucleo dei Toto (David Hungate, Jeff e Steve Porcaro, lo stesso David Paich), Lee Ritenour, Dean Parks, Bobbye Hall e ospiti come Toots Thielemans, Marcos Valle, la Vaughan dona nuova freschezza a queste canzoni patrimonio oramai della musica moderna. Non ci sono tributi, ma interpretazioni del tutto nuove con soluzioni particolarissime. I suoi remakes sono tagliati secondo uno stile troppo personale ed intimo. Get Back e Come Together  sono  vestite di sfavillanti abiti funky- soul. La sublime And I Love Her viene riproposta in chiave latineggiante e scelte ritmiche vicine agli Earth, Wind & Fire. Eleonor Rig

David Foster – The Best Of Me (1983, Sound Design Records)

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La discografia di David Foster come solista è abbastanza controversa e dispersiva in relazione alle sue immense qualità artistiche di musicista, produttore ( Peter Allen, Hall & Oates, Average White Band, Natalie Cole, Bill Champlin, Tubes, Chicago, Whitney Houston, Celine Dion, etc. ) ed autore dal repertorio strepitoso (Earth, Wind & Fire, Michael Jackson, Manhattan Transfer, Boz Scaggs, Dionne Warwick , Al Jarreau, Kenny Loggins , Madonna, etc. ). Questo esordio per la Sound Design giapponese “ è certamente il lavoro che meglio lo rappresenta. Foster è un pianista dal fraseggio elegante ma di consistente spessore espressivo. Un tocco romantico e personale che lo fa “ trafficare “ a piacimento con la materia pop. Il disco esprime due fondamentali forze motrici, quella melodica e quella dell’arrangiamento , dalle quali dipende in modo assoluto con molto rigore acustico. Quando il pop fa quadrato intorno a se stesso, le riletture sono capaci delle medesime risonanze e di u

Gilbert O’Sullivan – Southpaw (1977, MAM)

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Chi onora la tradizione della canzone pop è più antipatico di chi va in cerca di nuove emozioni, per questo Gilbert O’ Sullivan è sempre stato bistrattato. La copertina dice che il compositore è un mancino e per un pianista come lui, di solito, è uno svantaggio (la tastiera è costruita per i destri) . Ma i mancini, è scientificamente provato, il più delle volte hanno capacità artistiche superiori e lo svantaggio si compensa. Le canzoni di Gilbert O’Sullivan sono “ mancine “: possiedono armonie elementari, ma piene di forza, melodie elaborate, ma semplici. Cartina al tornasole è “Alone Again “ la sua canzone più famosa ed anche una delle più “ simpatiche “ elegie alla tristezza mai concepite. In questo album non c’è niente di audace, ma la tradizione pop viene profondamente rispettata, raccogliendo spesso forze interessanti con spunti che rimandano al magistero del pop inglese sulla direttrice McCartney/Elton John/10cc. Canzoni come “ I Remember Once “ , “ My Love And I “ o “ No Tell

Jay Graydon – Airplay For The Planet (1993, Toshiba)

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Talento dei tempi moderni, musicista pop che ha saputo diventare un fuoriclasse non utilizzando i luoghi comuni del pop. Un curriculum impressionante come sideman, collaborazioni prestigiose e produzioni eclettiche. Gli arrangiamenti, le orchestrazioni, i missaggi, sono diventati un marchio preciso, una miscela magica sulla quale si è retto per anni tutto il movimento A.O.R.. Dopo aver passato un lustro di quasi inattività, escludendo un paio di produzioni in terra nipponica con artisti locali e quella sintesi tra Chicago e Def Leppard denominata Planet 3 con Glenn Ballard e Cliff Magness, tornò a sorpresa con questo primo album a suo nome, dal titolo rievocativo di “Airplay for the Planet“. Un ritratto preciso di un musicista rinnovato che ha ancora messaggi interessanti da offrire, ma senza alcuna immolazione. Nel senso che la sua è una riflessione sulla strada percorsa dove non vi è frattura tra ieri ed oggi, c’è semplicemente un unicum condotto con coerenza e precisione ancora

Jimmy Webb - Letters (1972, Reprise)

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Negli anni Sessanta Webb ha guidato, insieme a Bacharach , un autentico e complesso processo di rinnovamento di gran parte della musica pop. L’innovazione partì da una completa rilettura ritmica ed armonica da quelli che erano i canoni del mainstream americano di Tin Pan Alley prima e del Brill Building poi, proponendo uno stile e un suono di grande personalità e dagli arrangiamenti complessi. Entrambi si cimentarono anche in un difficile argomento come il r&b per risalire alle fonti della canzone pop misurandone ogni sua evoluzione con il passato. Riguardo Webb, il tempo sta dimostrando quanto siano stati importanti nell’evoluzione della canzone moderna anche i suoi spesso trascurati dischi da solista. Sono il lavoro di un caposcuola che non aveva più bisogno di creare una rivoluzione per ogni album o produzione che incideva. Si era creato una forma classica che gli apparteneva e intorno vi articolava le sue melodie, le sue geniali argomentazioni orchestrali. “ Letters “ è il q

Pages – Future Street (1979, Epic)

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Bobby Colomby, che aveva prodotto il loro lavoro d’esordio, ripropone gli stessi schemi con alcuni interventi calibrati di rock-soul. "Future Street" infatti è un’altra perla di trovate e raffinatezze, dove la band giunge ad una miscela costruttiva tra pop melodico, rock robusto, funky muscolare e schemi fusion di grande efficacia. Il pop jazzato del precedente disco contribuisce qui ad approfondire ulteriormente la scenografia delle canzoni. Il potente pop-rock di I Do Believe In You fu un buon successo interpretato anche da Marty Balin, Frank Stallone e gli America. The Sailor's Song e  Chemistry regalano il piacere di certi incontri riusciti con la fusion. L’incantesimo dolce e straziante di Who's Right, Who's Wrong co-firmata da Kenny Loggins, che se la porterà lo stesso anno nel suo Keep The Fire , fa ormai parte dell’Eldorado pop californiano così come Take My Heart Away , altra perla melodica ripresa anni dopo in una bella versione da Ricky Peterson

Aztec Camera – High Land, Hard Rain (1983, Warner)

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Aztec Camera alias Roddy Frame, un ragazzo di nemmeno vent’anni dalla penna leggera e malinconica, con una scrittura che ricorda Costello. Giovanissimo prodigio, questo imberbe scozzese esordì al suono di canzoni pop schiette e fragranti. La band coincide con lui, gli altri (Campbell Owens, Bernie Clarke e Dave Ruffy) sono una sorta di session-men che mutano col mutare del suo mood. “ High Land, Hard Rain “ è un album d'esordio straordinario per maturità stilistica, una pregevolissima digressione romantica fra riflessi pop e folk, accenni soul e jazz, e una serie di vademecum tascabili sui ritmi esotici e bossa nova. A Roddy Frame basta una chitarra acustica per fare del funk intimo (Oblivious) o del blue eyed soul (Pillar To Post). Canzoni spontanee sull’amore perduto (Back On The Board), carezze con l’accezione della canzone pop moderna (We Could Send Letters , Walk Out To Winter) , delicatezze in cui esibisce il suo chitarrismo virtuoso (Release). Brani che sono come piccol

Clif Magness – Solo (1994, Empire)

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Magness è un fuori programma degli anni Novanta, uno che avrebbe fatto un gran figura ai tempi dei primi Toto senza la presenza ingombrante di qualche drum machine. Autore e produttore variegato (Jack Wagner, Barbra Streisand, Patti Austin, Avril Lavigne, Wilson Phillips ,Celine Dion, Sheena Easton, Steve Perry, Dolly Parton, James Ingram, Al Jarreau, DeBarge, George Benson) e un Grammy nel 1990 con  " The Places You Find Love " inserita da Quincy Jones in “ Back on the Block , il musicista texano, nel 1991, formò una superband insieme a Jay Graydon e Glen Ballard chiamata Planet 3. Fu un progetto estemporaneo in quanto il materiale che i tre avevano scritto era destinato per un disco degli Heart, ma poi decisero all’ultimo di usarlo per il loro “ A Heart For The Big Machine “ . Nel 1994 l’etichetta svedese Empire pubblicò questo album solista di Magness , mentre l’anno seguente fu stampato con copertina diversa anche per il mercato giapponese dalla Toshiba. Sempre aiuta

Burt Bacharach – At This Time (2005, Columbia)

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Un disco che ci fa scoprire un nuovo ed imprevedibile Bacharach: teso, lirico, con l’urgenza di raccontare storie d’attualità ed un’enorme voglia di comunicare con un diverso registro emotivo e musicale. “ A This Time “ nasce in collaborazione con artisti di spicco della scena hip-hop come il produttore André Romell Young alias Dr. Dre (Eminem, 50 Cent) , Prinz Board dei Black Eyed Peas , il rapper Denaun Porter, e talenti del pop e del jazz come Rufus Wainwright, Elvis Costello, Chris Botti, Billy Childs. A 77 anni, Bacharach - una carriera lunga 60 anni, successi, premi riconoscimenti (3 Oscar e 6 Grammy) - è ancora un musicista entusiasta. Ricettivo e vigile nel capire le innovazioni tecnologiche e le ispirazioni artistiche attuali cerca una strada diversa in lunghe e dilatate composizioni. Ci sono storie di solitudine e grandezza, di denuncia politica ed attualità , di sogni e paure prese dal quotidiano . Un disco intimista e carico di pensieri che si infila nei corridoi di at

Donald Fagen - Morph the Cat (2006, Reprise)

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“ Morph The Cat “ arriva a completare quella che l’artista stesso definisce “ trilogia “, ovvero la giovinezza, la mezza età e la fine. A differenza degli album con gli Steely Dan , i dischi da solista di Fagen sono tutti strettamente autobiografici . “ The Nightfly “ , il suo esordio del 1982, è uno di quei lavori che non si lascia scordare ancora oggi , must dei tempi moderni e miscela originale tra canzoni di strada, , sketches di jazz e pop allo stato puro. Era lo sguardo del giovane Fagen rivolto al passato, alle sue influenze musicali. L’esatto opposto undici anni dopo con “ Kamakiriad “ : un concept proiettato verso il futuro , costruito su un consistente scenario di immagini sonore e storie di vita che riapriva una carriera volutamente tortuosa senza Steely Dan. Questa nuova fatica è il presente : fotografia immacolata e tagliente della sua attuale esperienza umana e artistica. Fagen dice : “ E’ il mio album sulla morte. La morte della cultura e della politica, l’inizio del

Jimmy Webb

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Jimmy Webb Elk City, Oklahoma, 1946 Conosciuto più per le sue straordinarie doti di compositore che come interprete, Jimmy Webb è stato un musicista sempre alla ricerca di nuovi stimoli e codici sonori sconosciuti alla musica pop del suo tempo. Personale nei pentagrammi, estroso negli arrangiamenti, stravagante nelle ritmiche quanto ardito nelle costruzioni armoniche, Webb fu un punto di riferimento per tanti di musicisti ed arrangiatori tra la fine degli anni Sessanta inizio Settanta. James Layne Webb nasce nel 1946 a Elk City, Oklahoma, ma nel 1964 la sua famiglia si trasferisce in California dove Webb studia musica al San Bernardino Valley College. L’anno seguente, dopo la morte della madre, il padre ( un pastore battista ) decise di tornare in Oklahoma, ma Webb volle restare in California per continuare gli studi ed intraprendere la carriera di songwriter. A Los Angeles cominciò a trascrivere brani di altri artisti per un piccolo editore musicale , poi fu ingaggiato come songwr

Dusty Springfield – It Begins Again (1978, Mercury)

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Vagoni di mestiere e una voce acrobatica al massimo della sua sapienza di intrattenitrice delle divagazioni pop. Questo fu il primo album della “Diva “ per la United Artists negli States, distribuito in Gran Bretagna dalla Mercury . Due canzoni furono riprese dall’album precedente del 1974 “ Longing “ mai pubblicato e registrate di nuovo: “ Turn Me Around “ di Chi Coltrane e "A Love Like Yours (Don't Come Knocking Every Day)" di Holland-Dozier-Holland. Registrato a Los Angeles e prodotto da Roy Thomas Baker ( Queen ), la cantante si orienta decisamente verso il pop mainstream con canzoni scritte da Nona Hendryx , Peter Allen, Barry Manilow, Dean Parks e specialisti di studio tra cui Jay Graydon, Jeff Baxter, David Paich, Joe Sample e Brenda Russell. Gente che dona un suono impeccabile a tutto il lavoro. Sono canzoni di un romanticismo disperato, di ansia di vita , dove non c’è mai il registro dell’ auto contemplazione. Non è la Springfield di ieri, quella che solo Arteh

Quincy Jones – The Dude (1981, A&M)

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Organizzatore extralusso, produttore magnanimo, arrangiatore finissimo, guida ideale, Quincy Jones supervisiona, arrotonda i suoni, dirige grandi musicisti e grandi vocalist. Non c’è nulla di inarrivabile per lui quando di tratta di pop e r&b, ballata soul e jazz d’autore. Dodici nominations per il Grammy Award: album dell’anno (The Dude) , produttore dell’anno (Quincy Jones), miglior interprete pop maschile (James Ingram per  Just Once), miglior artista esordiente (James Ingram) , miglior interprete di r&b (Patti Austin per Razzamatazz), miglior brano strumentale (Velas) , miglior interprete maschile di r&b ( James Ingram per One Hundred Ways) , migliore performance di r&b eseguita da duo o gruppo (The Dude), miglior brano r&b (Ai No Corrida), miglior arrangiamento strumentale (Velas) , migliore arrangiamento vocale e strumentale (Ai No Corrida), migliore registrazione non classica (The Dude). Questo fu l’ultimo "regalo" di Quincy Jones alla

Ryuichi Sakamoto – Sweet Revenge (1994, Virgin)

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Altra perla del genio di Sakamoto. Come in "Heartbeat", l'artista nipponico focalizza perfettamente il rapporto con diversi stili musicali, specialmente quelli vicini al contemporary soul con qualche episodio più meditato e le consuete componenti colte della sua musica. Lo sguardo alla musica etnica è rispettoso, l’approccio al pop e all’elettronica istintivo. “ Sweet Revenge “ si arricchisce di dettagli e sfumature con un campionario di brani affascinanti. Il new jack swing di “ Regret “, il Philly Sound di “ Pounting At My Heart” , l’hip hop di “ Moving On “, le orchestrazioni alla Bacharach di “ Sentimental “, due strumentali descrittivi come la title track e “ Tokyo Story “. Una fusione colore/calore che prosegue nel rap jazzato di “ 7 Seconds “, la passione e l’energia di “ Love And Hate “ cantata dall’ex Frankie Goes To Hollywood Holly Johnson ed infine una canzone pop stupenda come “ Some Dream, Some Destination “ cantata da Roddy Frame. Mauro Ronconi

China - China (1981, Epic)

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Replicanti di ottime letture e di felici educazioni musicali teorizzano, con questo unico lavoro, le coordinate dei Doobie Brothers e dei migliori Toto mettendoci dentro sostanziose tracce d’anima. I China erano un trio proveniente dal Canada formato da Bill King, tastierista e unico “ americano “ del gruppo il quale aveva già pubblicato un paio di dischi da solista per la Capitol canadese (Goodbye Superdad , Dixie Peach ) , poi il chitarrista Danny McBride anche lui con un album solistico alle spalle ( Morningside ) e la partecipazione al musical " Jesus Christ Super Star ", quindi il cantante Chris Kearney autore di tre lavori nella prima metà degli anni Settanta sempre per la Capitol canadese ( Kearney, Pemmican Stash, Sweetwater ). Non è banale imitazione questo album bensì una interiorizzazione molto creativa del miglior sound A.O.R. dell’epoca e lo confermano brani ispirati ed elegantissimi come “ Roll Me Over “, “ Runnin’ Around “ , “ Days And Nights “ e " Neve

Mark - Almond – Other Peoples Rooms (1978, Horizon / A&M)

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Jon Mark (chitarra e voce) e Johnny Almond (sax e flauto) sono musicisti sofisticati che prediligono atmosfere notturne e trovano con la super produzione di Tomy LiPuma e gli arrangiamenti orchestrali di Claus Ogerman quel mondo crepuscolare di devozioni jazz anni Settanta. Sono sprazzi d’intimità che Nick Drake dipingerebbe con più drammaticità e Michael Franks con più profondità. I due invece accarezzano le sensazioni, le sfiorano con un sound ovattato. Un disco dalle risonanze pop universali calato ad un passo dalla rarefazione di certa fusion, anche per il non indifferente contributo di musicisti come John Tropea, Steve Gadd, Ralph McDonald, Will Lee, Jerry Hey, Leon Pendarvis, Larry Williams, ma molto più intenso di qualsiasi lavoro fusion. “ Girl On Table 4 “ , “ Lonely People “, “ Other Peoples Rooms “, Then I Have You “ , “ Just A Friend “ sono tracce suadenti e morbide, intrise di sonorità possibiliste e solismi discreti. La nuova versione di “ The City “ pubblicata la pr

Bobby Caldwell - Cat In The Hat (1980, Polydor)

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Caldwell si conferma con questo secondo album una delle punte di diamante del pop-soul californiano, anche se la sua posizione è fuori dal contesto specifico, causa di identificazioni prettamente geografiche (registrato negli studi Criteria di Miami, Florida con i migliori turnisti locali). “Cat In The Hat“ è un lavoro adeguatamente spettacolare, una raccolta appassionata di canzoni blue eyed soul con omaggi alla melodia che il solito ed odiato showbiz aveva subito circoscritto nel dimenticatoio, salvo la ristampa digitale dei soliti giapponesi dove è diventato disco di platino. Miscele dinamiche di ritmi mutevoli (Coming Down From Love , Wrong Or Right ) ballate soul che traggono linfa vitale alla lezione del Motown Sound targato Stevie Wonder (To Know What You've Got, I Don't Want To Lose Your Love, You Promised Me) in cui c’è voglia di immaginazione, di allargare gli orizzonti e di contaminarsi. Altra perla è “Open Your Eyes“, brano campionato in seguito da due stelle del

Freddie Hubbard - Straight Life (1970, Columbia)

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Il 1970 è un anno fondamentale per la carriera di Freddie Hubbard, la svolta jazz-funky intrapresa con gli album Red Clay e Straight Life gli arrecherà un successo di caratura mondiale e con l'album seguente First Light (1971) vincerà il Grammy Award. Tuttavia, Straight Life ,  inciso da Hubbard con un gruppo di all-star che comprende il sassofonista Joe Henderson, il tastierista Herbie Hancock, il chitarrista George Benson, il bassista Ron Carter, e il batterista Jack DeJohnette, rimane probabilmente il suo miglior lavoro discografico di quel periodo. Personnel: Freddie Hubbard (trumpet, flugelhorn); Joe Henderson (saxophone); Herbie Hancock (piano); George Benson (guitar); Ron Carter (bass); Jack DeJohnette (drums); Weldon Irvine (tambourine); Richie Landrum (percussion). Tracks: 1. Straight Life 2. Mr. Clean 3. Here's That Rainy Day Spoiler : http://mediafire.com/?4edztwyevjr

Glen Campbell – Reunion: The Songs Of Jimmy Webb (1974, Capitol)

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I "sogni" pop di Jimmy Webb accostati magicamente ad uno dei suoi interpreti prediletti, quel Glen Campbell che intitolò addirittura tre suoi dischi negli anni Sessanta con tre canzoni di Webb: By The Time I Get To Phoenix (1967), Wichita Lineman (1968) e Galveston (1969). Questa riunione voluta fortissimamente da entrambi è un filo sonoro prezioso che si riannoda nella parca, saggia e mai inflazionata produzione di Jimmy Webb. I due mischiamo le carte del passato e quelle del presente fino a raggiungere una soluzione alternativa ad entrambi in una clima dove c’è l’easy listening, il country, l’hollywoodiano, il confidenziale. Canzoni che ti cullano con le loro melodie, con quegli intrecci e sdoppiamento di archi, con le loro pause , frutto di anni di musiche e di preziosi arrangiamenti. It’s A Sin , Ocean In His Eyes sono di grande spessore ed intensità, quindi la suggestione devastante di The Moon’s A Harsh Mistress , l’immortale bellezza di Just This One Time , il

Nielsen & Pearson - Blind Luck (1983, Capitol)

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Terzo e ultimo disco del duo Reed Nielsen - Mark Pearson. Accanto a Richard Landis siede ora in consolle anche Bill Schnee, produttore geniale, ma non invadente che lascia molta libertà d’azione agli artisti. Come nel precedente album, i due riescono ancora una volta a coniugare le istanze migliori dell’A.O.R. dando vita ad una straordinaria raccolta di canzoni impeccabili. Il feeling raffinato e, al contempo energico che costituisce il trademark sonoro del duo si manifesta immediatamente nella sequenza iniziale del disco: Hasty Heart con bellissimo dialogo chitarre-tastiere, Sentimental  carica di originali armonie vocali e il remake di Too Good To Last di David Roberts. Ma tutto Blind Luck è una sequela di ottimi brani che viaggiano tra coralità, pop aristocratico ed eleganti formalismi rock, la melodica I Hear You Breathing e la ballata in up-tempo di Got Me Where You Want Me   hanno il carattere migliore di questo mix. Commercialmente fu un fiasco e il duo si sciolse subito

Lionel Richie – Can’t Slow Down (1983, Motown)

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Uno dei più grandi entertainers della musica black. Dopo dodici album di successo con i Commodores, Lionel Richie decide di mettersi in proprio. La prima tappa fu con nel 1981 con un singolo insieme a Diana Ross , tema principale del film “ Endless Love “ di Franco Zeffirelli che ebbe una nomination all’Oscar come migliore canzone originale. Nel frattempo arriva il primo omonimo album da solista prodotto dal suo amico James Anthony Carmichael, collaboratore dei Commodores fin dai tempi di “ Machine Gun “ da cui sono tratti due hit “ You Are “ e “ Truly “ e una collaborazione splendida in “ Wild Things Run Fast “ di Joni Mitchell. Questo “ Can’t Slow Down “ è un ulteriore passo in avanti in qualità ed originalità con grande lavoro di produzione e ricerca nel trovare il suono giusto che potesse sfruttare il talento di Richie. Una fusione lussuosa tra strumentazione tradizionale e sintetizzatori. Questa formula già sperimentata con successo nel disco precedente mette d’accordo tutti con